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L’altro irraggiungibile
La psicoterapia della Gestalt con le esperienze depressive
A cura di Gianni Francesetti e Michela Gecele
Prefazione
di Umberto Galimberti
Volendo esplorare la depressione dal punto di vista della teoria e della
psicoterapia della Gestalt, Gianni Francesetti e Michela Gecele hanno
curato questo libro intitolandolo opportunamente: L’Altro irraggiungibile.
E in effetti è proprio l’irraggiungibilità il tratto caratteristico dell’esperienza
depressiva se appena il terapeuta riesce ad affondare lo sguardo in quella
disarticolazione del linguaggio in cui, abolito ogni senso, è il silenzio a
prodursi come disperazione del linguaggio.
Nel libro frequente ricorre la considerazione che affrontare la
depressione esclusivamente con i farmaci significa toglierle la parola e
proibirsi di capire la sua verità. Una verità che fa retrocedere tutte le parole
nell’inarticolato, all’altezza del quale c’è solo il grido che talvolta
interrompe la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la
solitudine depressiva.
Terrorizzati dal silenzio della depressione, invece di portarlo alla parola,
come sarebbe nelle attese dei depressi, la terapia farmacologica, a cui
sempre più si rivolge il sapere psichiatrico, in ciò confortato dalle attese dei
parenti che da tempo hanno smesso di parlare con il loro congiunto
depresso, evita di perforare il silenzio e cercare, come invece fa la terapia
della Gestalt, di raggiungere quel grido taciuto, che è tale perché non c’è
più ascolto che possa raccoglierlo.
Così il silenzio diventa tumultuoso, e la depressione prende a parlare,
non con le nostre parole assolutamente euforiche e inutilmente
consolatorie, ma con quelle rotture simili alla lacerazione delle ferite
quando il corpo le conosce come ferite mortali.
E allora il tema della morte, questo assoluto silenzio inizia a parlare con
il tono tranquillo di chi sa di tenere nelle proprie mani tutte le sorti. Fine del
baccano indiavolato con cui quotidianamente tentiamo di perdere la nostra
anima. Un baccano che è la parodia del grido che affonda nella
depressione. Chiudere le orecchie non serve. Se vogliamo capire qualcosa
della nostra esistenza non possiamo far tacere quel grido intorno a cui si
raccoglie il primo segno che ci fa riconoscere un uomo nel deserto delle
cose.
A questo punto al posto della parola interviene il prozac o gli
antidepressivi di nuova generazione a desertificare, non a curare, la
tristezza del cuore. Basta interrompere la cura e il deserto ritorna più
ossessivo e incalzante, fino a espandersi da quel presente muto, in cui il
depresso disabita, per invivibilità, ogni evento, al passato che ha
desertificato amori che non si sono radicati, creatività estinte al loro
sorgere, ricordi che non hanno nulla a cui riaccordarsi, in quella solitudine
frammentata dove l’identico, nella sua immobilità senza espressione, coglie
quell’altra faccia della verità che è l’insignificanza dell’esistere.
Non si può parlare neppure di disperazione, perché l’anima del depresso
non è più solcata dai residui della speranza. E le parole che alla speranza
alludono, le parole di tutti, più o meno sincere, le parole che non si
rassegnano, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che
vogliono guarire languono tutte attorno al depresso, come rumore
insensato: il rumore che gli altri, i non depressi, si scambiano ogni giorno
per far tacere a più riprese quella verità che il depresso, nel suo silenzio,
dice in tutta la sua potenza.
Bisogna avere il coraggio di vivere fino in fondo anche l’insignificanza
dell’esistenza per essere all’altezza di un dialogo con il depresso, e solo
muovendosi intorno a questa sua verità, che è poi la verità che tutti gli
uomini si affannano a non voler sentire, può aprirsi una comunicazione.
Comunicazione rischiosa, avverte la terapia della Gestalt, non perché ci
può trascinare nella depressione, ma perché può tradire la nostra insincerità.
Il depresso infatti è sensibile al volto che smentisce la parola, e il suo
silenzio smaschera la finzione e l’inconsistenza. Per questo i volti dei
depressi sono rigidi e pietrificati. Abitando la verità dell’esistenza con tutto
il suo dolore, essi non stanno al doppio gioco della parola che danza
disinvolta sull’insensatezza della vita, o che, impegnata, indica una
formazione di senso, laggiù ai confini del deserto.
Il depresso sa che il confine, come l’orizzonte, è sempre al di là di ciò
che di volta in volta appare come confine e orizzonte, sa che non c’è felicità
nella sequenza dei giorni, che il sole che muore è lo stesso che risorge, e
che nel cerchio perfetto che il ritorno disegna, naufraga il progetto che per
un giorno si era levato per reperire un senso alla vita.
L’invisibile armonia del cerchio che ripete se stesso spezza ogni
irruzione rumorosa del senso, che il farmaco antidepressivo cerca di
restaurare come generica euforia, del tutto sganciata dalle radici del dolore.
Lo sguardo di pietra del depresso vede troppa menzogna nella
somministrazione del farmaco, e soprattutto nello sguardo di coloro che
glielo propongono: uno sguardo da cui traspare troppo desiderio di voler
seppellire il buio del silenzio, troppa speranza nel volere annullare la
disperazione.
E allora, a quanti indefessamente sostengono l’efficacia della “pillola
della felicità”, e a quanti, affascinati dalla possibilità, molto improbabile, di
veder trasformata l’anima in un evento chimico, la terapia della Gestalt
raccomanda di non rinunciare troppo frettolosamente alla parola e
all’ascolto, perché il depresso racconta quella verità che, con la nostra vita
euforica, ogni giorno noi seppelliamo per la gioia della nostra epidermide.
La verità del depresso è che la vita è anche dolore, e che il dolore cresce
quando il nostro cuore resta inascoltato. La prima funzione
dell’antidepressivo è di mettere a tacere definitivamente il nostro cuore. E
questo è il modo più sicuro per non entrare in dialogo, prima che con gli
altri, con il profondo di noi stessi.
Non rallegriamo artificialmente lo sguardo di pietra del depresso. La sua
gioia farmacologica non è persuasiva, anzi è più inquietante del suo
silenzio. Lui in fondo non ci crede e alla fine neppure noi. Con
l’antidepressivo non gli abbiamo restituito la gioia di esistere, abbiamo solo
trovato un modo sbrigativo per non essere in dialogo con lui. A differenza
del farmaco, il dialogo dispone solo di parole, ma le parole si fanno potenti
quando non solo si dicono, ma si ascoltano anche.
Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola
dell’altro là dove la parola conduce. Se poi, invece della parola, c’è il
silenzio dell’altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Nel luogo
indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa
guardare in faccia il dolore, la verità avvertita dal nostro cuore e sepolta
dalle nostre parole.
Questa verità, che si annuncia nel volto di pietra del depresso, tace per
non confondersi con tutte le altre parole. Parole perdute per il senso
profondo della nostra esistenza che ogni giorno tentiamo di disabitare,
dietro le maschere in cui è dipinta ovvietà, incrostazioni di felicità, o
recitate euforie.
Ma la terapia della Gestalt sa anche che le sofferenze dell’anima non
sono patologie fisse come quelle del corpo, perché subiscono l’influenza
dell’atmosfera del tempo e il clima che si diffonde. Fu così che a partire
dagli anni Settanta, la depressione divenne la forma della sofferenza
psichica per eccellenza, che ha liquidato d’un colpo le forme “nevrotiche”
che hanno caratterizzato il Novecento, riducendo di molto le chances della
psicoanalisi nata e cresciuta come cura della nevrosi.
La nevrosi, infatti, è un conflitto tra il desiderio che vuole infrangere la
norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Come conflitto, la nevrosi
trova il suo spazio espressivo nelle società della disciplina che si
alimentano della contrapposizione tra il permesso e il proibito, una
macchina che i più adulti fra noi conoscono perché regolava l’individualità
fino a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta. Poi, a partire dal Sessantotto, e
via via per gli anni successivi, la contrapposizione tra il permesso e il
proibito tramonta, per far spazio a una contrapposizione ben più lacerante
che è quella tra il possibile e l’impossibile.
Che significa tutto questo agli effetti della depressione? Significa che
nel rapporto tra individuo e società, la misura dell’individuo ideale non è
più data dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma dall’iniziativa, dal
progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella
massima espressione di sé. L’individuo non è più regolato da un ordine
esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa
(per cui il vissuto di colpevolezza era il nucleo centrale delle forme
depressive), ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue
competenze mentali, alle sue prestazioni oggettive, per raggiungere quei
risultati a partire dai quali verrà valutato.
In questo modo, dagli anni Settanta in poi, la depressione ha cambiato
radicalmente forma: non più il conflitto nevrotico tra norma e
trasgressione, con conseguente senso di colpa, ma, in uno scenario sociale
dove non c’è più norma perché tutto è possibile, il nucleo depressivo
origina da un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è in
grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle
quali ciascuno misura il valore di se stesso.
Questo mutamento strutturale della depressione, così ben segnalato dal
sociologo francese Alain Ehrenberg (1998), ha fatto sì che i sintomi classici
della depressione, quali la tristezza, il dolore morale, il senso di colpa,
passassero in secondo piano rispetto all’ansia, all’insonnia, all’inibizione,
in una parola alla fatica di essere se stessi.
E questo perché in una società dove la norma non è più fondata, come in
passato, sull’obbedienza, la disciplina interiore e il senso di colpa, ma sulla
responsabilità individuale, sulla capacità di iniziativa, sull’autonomia nelle
decisioni e nelle azioni, la depressione tende a configurarsi non più come
una perdita della gioia di vivere, ma come una patologia dell’azione, e il
suo asse sintomatologico si sposta dalla tristezza all’inibizione e alla
perdita di iniziativa, in un contesto sociale dove “realizzare iniziative” è
assunto come criterio unico e decisivo per misurare e sigillare il valore di
una persona.
Di qui il ricorso alla cocaina e agli psicofarmaci stimolanti per attutire
l’ansia parossistica, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa,
l’inibizione all’azione, il senso di fallimento e di scacco, fattori questi che
entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo
che la società odierna considera essenziali per riconoscere dignità e
significanza esistenziale a ciascuno di noi.
Del resto già Freud, considerando le richieste che la società esigeva dai
singoli individui, a più riprese si chiedeva se alle volte: «Non è forse lecita
la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere
umano, sono diventati “nevrotici” per effetto del loro stesso sforzo di
civiltà? […] Pertanto non provo indignazione quando sento chi, considerate
le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per
raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l’esito non
possa essere per il singolo altro che intollerabile» (1929).
Questa intollerabilità, a parere di Freud, era dovuta all’eccesso di regole
che governano le società civili, e ciò consentiva di iscrivere la depressione
nel novero delle “nevrosi”, dove si registra il conflitto tra norma e
trasgressione, con conseguente vissuto di colpevolezza. Oggi le norme
limitative non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è sfumato
nel possibile e nel consentito.
Per effetto di questo slittamento oggi la depressione, come
opportunamente ritiene la terapia della Gestalt, non si presenta più come un
conflitto e quindi come una “nevrosi”, ma come un fallimento nella
capacità di spingere a tutto gas il possibile fino al limite dell’impossibile. E
quando l’orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò che è permesso,
ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda che si pone alle soglie del
vissuto depressivo non è più: “Ho il diritto di compiere quest’azione?”, ma
“Sono in grado di compiere quest’azione?”.
Quel che è saltato nella nostra attuale società è il concetto di limite. E in
assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di
inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione. Tratti questi che
entrano in collisione con l’immagine che la società richiede a ciascuno di
noi. E la coscienza di questo crudele fallimento sul piano della
responsabilità e dell’iniziativa, o anche sul piano del mancato sfruttamento
di una possibilità, amplifica immediatamente i confini della sofferenza e
dell’inadeguatezza che sono presenti in ogni depressione e che i modelli
sociali dominanti rendono ancora più dolorose e talora insanabili. Di qui il
ricorso massiccio alla cocaina e agli psicofarmaci “tonificanti”.
Possiamo scorgere l’origine dell’odierna depressione in due
cambiamenti di tendenza registrati negli ultimi trent’anni della nostra storia
circa il modo di concepire l’individuo e le possibilità della sua azione. Il
primo cambiamento s’è registrato verso la fine degli anni Sessanta, quando
la parola d’ordine dell’intero continente giovanile era: “emancipazione”
all’insegna del “tutto è possibile”, per cui: la famiglia è una camera a gas,
la scuola una caserma, il lavoro, e il suo rovescio il consumismo,
un’alienazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve
liberare (“Vietato vietare”).
Una libertà di costumi fino allora sconosciuta si coniuga a un progresso
delle condizioni materiali, e nuove prospettive di vita diventano una realtà
tangibile nel corso del decennio. Se la follia, nel comune sentire dei primi
anni Settanta, appare come il simbolo dell’oppressione sociale e non più
come una malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è
possibile: il pazzo non è malato, è solo diverso, e soffre proprio per la
mancata accettazione della sua diversità.
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva
pensato in termini sociali, si impianta, per uno strano gioco di confluenza
degli opposti, la stessa logica di importazione americana, giocata però a
livello individuale, dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di
iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni
limite, anzi con il concetto di limite spinto all’infinito, per cui oggi siamo a
chiederci: qual è il limite tra un ritocco di chirurgia estetica e la
trasformazione in androide di Michael Jackson, tra un’abile gestione dei
propri umori attraverso farmaci psicotropi e la trasformazione in robot
chimici o in veri e propri drogati, tra le strategie di seduzione troppo spinte
e l’abuso sessuale, tra il diritto alla salute e al prolungamento della vita e la
manipolazione genetica? E questo solo per fare degli esempi che
dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone
determinano un tale stato d’allarme da non sapere più chi è chi.
Come scrive Augustin Jeanneau: «La liberazione sessuale ha sostituito
la preoccupazione di sbagliare con la preoccupazione di essere normali»
(1986). Espressione sintomatica del cambiamento, non dissimile da quella
segnalata da Vidiadhar S. Naipaul (1979): «Non potevo più rassegnarmi al
destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra
tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da offrire?
L’inquietudine cominciava a mangiarmi dentro».
E allora psicofarmaci, e se vogliamo anche un certo piacere: droga. Tra
l’odierna depressione e la dipendenza da cocaina c’è infatti un parallelismo
che approda a una sorta di complementarietà. E questo perché sia la
depressione sia la tossicodipendenza, per differenti che possano apparire,
esprimono la patologia di un individuo che non è mai sufficientemente se
stesso, mai sufficientemente colmo di identità, mai sufficientemente attivo,
perché troppo indeciso, troppo titubante, troppo ansioso, per cui
depressione e tossicodipendenza sono come il diritto e il rovescio di una
medesima patologia dell’insufficienza.
Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva
la dipendenza da cocaina o da psicofarmaci per le promesse di onnipotenza
che prospettano, lasciando intravedere la possibilità di infrangere la barriera
che ci separa da quella meta agognata dove “tutto è possibile”, “tutto è
permesso”. In questo modo si radicalizza la figura dell’individuo sovrano
che paga naturalmente il conto con la schiavitù della dipendenza, che è poi
il prezzo della libertà illimitata che l’individuo si assegna.
Alimentando l’immaginario di poter maneggiare illimitatamente la
propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe “sporche”, la cocaina
sopprime i sintomi della depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a
cui siamo chiamati e, accelerando la corsa, ci rende perfettamente
omogenei alle richieste sociali.
Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, la cocaina
induce il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo
una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della
nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore,
desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di
socializzazione richieste dalla nostra società a cui fanno più comodo robot
automatizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere se stessi e
di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica di
vivere.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia, Nietzsche
annunciava profeticamente «l’avvento dell’individuo sovrano, uguale
soltanto a se stesso, riscattato dall’eticità dei costumi» (1882, p. 257 trad. it.
1968). Oggi, a cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che
l’emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e
dallo spirito d’obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato al
parossismo della prestazione, dell’iniziativa e dell’azione, nella più assoluta
incapacità di essere se stessi al di là delle richieste sociali di efficienza,
iniziativa, rapidità di decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il
limite.
Leggiamolo allora questo libro ricco di intuizioni ed esperienze nella
convivenza terapeutica con la depressione classica e con quella oggi più
diffusa, senza evitare l’esperienza depressiva dell’adolescenza, quella che
accompagna la vecchiaia, che affianca il periodo del climaterio, le
neoplasie, la solitudine, nel tentativo, a mio parere riuscito, di raggiungere
“l’altro irraggiungibile”.
Bibliografia
Ehrenberg A. (1998), La fatigue d’être soi. Dépression et societé, Odile Jacob,
Paris (trad. it.: La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi,
Torino, 1999).
Freud S. (1929), Das Unbehagen in der Kultur (trad. it.: Il disagio della civiltà, in
Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino).
Jeanneau A. (1986), Les risques d’une époque ou le narcissisme du dehors, Puf,
Paris.
Naipaul V.S. (1979), A bend in the river, Vintage Books, London (trad. it.: Alla
curva del fiume, Adelphi, Milano, 1982).
Nietzsche F. (1887), Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (trad. it.:
Genealogia della morale. Uno scritto polemico, in Opere, vol. VI, 2, Adelphi,
Milano, 1968).
Ringraziamenti
Questo volume ha trovato sostegno e nutrimento in molte relazioni e
nel lavoro creativo di molte persone senza le quali non avrebbe potuto
essere scritto.
In primo luogo ringraziamo Margherita Spagnuolo Lobb e Giovanni
Salonia per l’insegnamento, la fiducia e il supporto che ci danno da
molti anni. Da loro siamo stati ispirati e abbiamo imparato le basi da
cui questo volume prende le mosse. La loro passione per la
comprensione e cura della sofferenza e il loro rigore etico nella
relazione terapeutica sono stati per noi una guida costante. Le forme
diverse della loro creatività teorica e l’unicità della loro poesia sono lo
sfondo che nutre il nostro operare.
Siamo profondamente riconoscenti a Eugenio Borgna e a Umberto
Galimberti: la ricchezza della fenomenologia e della psichiatria
fenomenologica ci è arrivata innanzitutto attraverso di loro. Ci hanno
insegnato a guardare alla psicopatologia coniugando il rigore alla
radicale umanità e a diffidare di ogni riduzione di ciò che è umano. In
particolare, ringraziamo di cuore Galimberti per il supporto che ha
fornito a quest’opera accettando di scriverne la prefazione.
Molti altri colleghi sono stati presenti direttamente o indirettamente
nella cura e stesura di quest’opera, con la loro creatività scientifica e la
loro affettuosa amicizia: Maria Mione, Elisabetta Conte, Piero
Cavaleri, Valeria Conte, Antonio Sichera, Dan Bloom, Carmen
Vázquez Bandín, Nancy Amendt-Lyon, Jean-Marie Robine, Peter
Philippson, Jan Roubal, Ruella Frank. Anche lo sguardo intenso di
Richard Kitzler ci ha spesso accompagnato: la sua presenza, il suo
humor e la sua intelligenza ci mancano. Così come ci è stato di
supporto, e nello stesso tempo ci manca, l’accoglienza e il sorriso di
Harm Siemens.
Ringraziamo gli autori dei capitoli per aver aggiunto questo impegno
alla loro vita professionale già così intensa, con creatività e
disponibilità. In particolare, un grazie a Iolanda Poma per aver
accettato questa deviazione dalle rotte che le sono abituali.
Un grazie a Carlotta Datta per l’editing e l’impaginazione del libro,
ma soprattutto per la generosità e cura con cui l’ha fatto.
Sentiamo molta riconoscenza verso le persone con cui abbiamo
lavorato e che sono ispiratrici dei nostri percorsi e della nostra
comprensione: i nostri pazienti, con cui quotidianamente dividiamo la
strada e, in parte, la fatica di percorrerla. Le pagine che abbiamo scritto
appartengono innanzitutto a loro e proviamo un profondo rispetto
davanti al loro soffrire e ammirazione davanti alla loro creatività.
Un grazie anche ai nostri allievi delle scuole di specializzazione: la
loro curiosità e la loro intelligenza critica, oltre che il loro affetto, ci
hanno costantemente motivato a portare avanti questo progetto.
Infine, siamo consapevoli che le energie dedicate allo studio e alla
stesura di questo libro hanno sottratto tempo ai nostri affetti più intimi:
vogliamo ringraziarli della loro pazienza e del loro amore. Sentiamo
però che il nostro impegno in quest’opera ci ha anche molto arricchiti,
consentendoci forse di essere un po’ più capaci di intimità e di
presenza. Se questo è vero, ne è valsa la pena.
Molti nomi o sguardi ancora si affacciano mentre ci soffermiamo
sulla gratitudine che sentiamo: i fili si perdono e si complicano, e
questo ci dà la misura di come sia necessario accettare il debito che ci
lega alla vita, per i doni della quale siamo profondamente riconoscenti.
Introduzione
di Gianni Francesetti e Michela Gecele
Questo volume nasce dal desiderio di presentare la prospettiva
gestaltica su uno dei temi centrali della sofferenza umana: le forme della
depressione e le sue oscillazioni maniacali. Esistono diversi libri sul
trattamento della depressione a partire da altri modelli psicoterapeutici,
mentre nella letteratura gestaltica abbiamo trovato solo alcuni
significativi, ma sporadici, contributi. Questo, nonostante in psicoterapia
della Gestalt il lavoro con le esperienze depressive sia diffuso e possa
contare su una vasta casistica. Un primo intento è dunque di raccogliere
l’esperienza e le conoscenze cliniche maturate dagli autori per offrire al
lettore una comprensione di questo disagio, basata sulla teoria gestaltica,
e allo psicoterapeuta uno strumento utile nel suo lavoro di cura. Un
secondo intento è di offrire una lettura inedita delle esperienze psicotiche
dello spettro depressivo e maniacale, su cui poco è stato scritto nella
letteratura psicoterapeutica non solo gestaltica. Ci troviamo infatti in un
territorio della sofferenza umana fra i più abissali e difficili da contattare e
da comprendere: questo volume rappresenta un tentativo di sostare in
questa sofferenza senza rinunciare alla ricerca del senso, della
comunicazione e dei fili vitali che riescano a vincere l’irraggiungibilità di
questa condizione.
Ovviamente, nessun testo offre scorciatoie alla relazione terapeutica
che è fabbricata di esperienza vissuta; ma contiamo sul fatto che,
attraversando il libro, le esperienze che narra e i paesaggi che suscita, il
lettore arricchisca il proprio sfondo vitale e teorico. Ogni sfondo è,
appunto, fondante e potrà essere presente come sostegno spontaneo al
momento opportuno. In linea con una impostazione presente già in lavori
precedenti (si veda ad esempio Attacchi di panico e post-modernità),
riteniamo che la comprensione clinica debba emergere da sfondi più ampi
della stanza dove lo psicoterapeuta e il paziente si incontrano; per questo
nel libro abbiamo dato spazio anche ad altri punti prospettici: lo sguardo
sul contesto sociale, l’analisi di alcune situazioni critiche, l’orizzonte
filosofico e antropologico. L’origine di questo testo si colloca quindi ad
un crocevia fra una diagnosi, una teoria, e il dispiegarsi di entrambe nel
contesto attuale. Questi livelli sono altrettanti strumenti di analisi e
riflessione incrociata: il metodo della psicoterapia ci aiuta ad esplorare
diagnosi e contesti; lo sfondo sociale e culturale è una chiave per
interpretare gli orientamenti diagnostici e psicoterapici; le diagnosi sono
espressioni di un contesto politico e sociale e mettono in discussione gli
strumenti della psicoterapia.
La lettura delle esperienze depressive che emerge dal libro è inedita:
come ogni creatura è debitrice sempre insolvente della propria vita. I fili
che l’hanno tessuta arrivano dal lavoro di elaborazione della
psicopatologia in psicoterapia della Gestalt sviluppato da Margherita
Spagnuolo Lobb e Giovanni Salonia nell’Istituto di Gestalt H.C.C. La
sintesi del vissuto depressivo come irraggiungibilità dell’altro è stata
elaborata da Giovanni Salonia: abbiamo letto la nostra esperienza clinica
a partire da questo nucleo di comprensione e lo abbiamo inserito nel
campo variegato di elaborazioni che troviamo in altri modelli
psicoterapeutici, in primo luogo nei lavori di Lowen e in quelli
psicoanalitici, ma anche nella prospettiva sistemica, intersoggettiva e di
campo, cercando di dialogare con la teoria dell’attaccamento,
dell’inibizione dell’azione e con le scoperte dell’infant research. E
restando, speriamo, fedeli alla teoria della psicoterapia della Gestalt. Non
sarebbe stato possibile tentare una lettura gestaltica dell’esperienza
psicotica depressiva e maniacale senza i contributi di Margherita
Spagnuolo Lobb sulla teoria del sé, sull’intenzionalità di contatto e sulla
comprensione dell’esperienza psicotica a partire dal concetto di ground.
Senza questi cardini non avremmo potuto collegare la teoria della
psicoterapia della Gestalt alla fenomenologia dell’esperienza psicotica.
Essenziali sono state anche le riflessioni di Jean-Marie Robine sull’es
della situazione e quelle di Dan Bloom, di Carmen Vázquez Bandín, di
Peter Philippson e più in generale dell’Istituto di New York, sempre sul
sé. Un’altra fonte di ispirazione che vogliamo esplicitare è la psichiatria
fenomenologica: la riflessione sull’esperienza psicotica che proponiamo
prende le mosse da queste letture e sarebbe stata impossibile senza questo
contributo, giunto a noi grazie allo stimolo e ai lavori soprattutto di
Eugenio Borgna e Umberto Galimberti. Ci siamo confrontati in
particolare con l’opera di Minkowski, Straus, Von Gebsattel, Binswanger,
Tellenbach, Merleau-Ponty, Blankenburg, Kimura, Maldiney, Ey,
Tatossian e, fra gli autori italiani, Cargnello, Callieri, Ballerini, Rossi
Monti, Gozzetti, Stanghellini, Correale. E, come vedremo, proprio la
teoria del sé ci sembra essere un anello di congiunzione fra la teoria della
psicoterapia della Gestalt e la psichiatria fenomenologica. Qui finiscono i
debiti che esplicitiamo, ma che sappiamo bene di non esaurire.
La lettura che emerge da questo volume è una fenomenologia dei
vissuti depressivi intesi come fenomeni appartenenti non solo
all’individuo, ma al campo relazionale da cui questi emerge e di cui è
parte attiva. La sofferenza dell’individuo è espressione creativa della
sofferenza della relazione: questo passaggio è fondamentale per trovare il
senso del disagio e la strada del lavoro terapeutico. Abbiamo sviluppato
questo testo cercando di essere quanto più possibile fedeli alle esperienze
dei pazienti e alla visione antropologica gestaltica e fenomenologica:
considerando quindi il sé come radicalmente incarnato e radicalmente
costituito nell’intersoggettività. L’esperienza depressiva viene letta
attraverso la chiave dell’intenzionalità relazionale, declinata attraverso il
concetto-limite dell’irraggiungibilità dell’altro: una sorta di impossibilità
ontologica, attraverso cui cogliamo le varie gradazioni delle difficoltà
relazionali e dei limiti dell’esperienza umana, nelle diverse età della vita.
Nelle pagine del testo, si delinea sempre di più come l’irraggiungibilità
dell’altro determini un alterato rapporto con il mondo e quindi un
malessere contagioso e pervasivo.
Da questi sfondi emergono i capitoli che compongono il libro.
Il primo, un’intervista effettuata da uno dei curatori a Margherita
Spagnuolo Lobb, introduce il tema, sottolineando sia le difficoltà sia il
senso del lavoro psicoterapeutico nella sofferenza depressiva. Il racconto
in prima persona di una terapeuta di grande esperienza, la testimonianza
delle difficoltà attraversate e dei successi ottenuti, del gioco di risonanze
personali che co-creano l’esperienza in terapia, sono di ispirazione e
sostegno per chi si avventura nei territori della sofferenza depressiva.
Giovanni Salonia, nel secondo capitolo, partendo da una analisi
generale dei rapporti fra individuo e comunità, propone una lettura
psicosociale della depressione e offre una cornice di senso per collocare
questi vissuti nel nostro tempo. Senza questo sfondo, l’esperienza del
singolo è una figura sospesa e incomprensibile, irrimediabilmente votata
ad una lettura riduzionistica. Si tratta di un modo di guardare ai fenomeni
della sofferenza che trascende la depressione e getta luce sul rapporto
ermeneutico fra la psicopatologia e il contesto in cui questa prende forma.
Il terzo capitolo, scritto da Gianni Francesetti, esplora l’esperienza
depressiva con l’intento di darne una lettura gestaltica. A partire da una
distinzione delle varie forme della depressione, ne analizza la
fenomenologia – descrittiva e strutturale – alla luce dei concetti gestaltici
fondamentali: la dinamica figura/sfondo, le funzioni del sé, il confine di
contatto, l’adattamento creativo. Ne emerge una lettura che, a partire da
una trama di rimandi alla psichiatria fenomenologica, consente di
collocare l’esperienza depressiva, anche quella psicotica, in un orizzonte
psicoterapeutico. Questo diventa possibile in quanto le condizioni di
possibilità dell’esperienza implicate nelle esperienze psicotiche (la
dimensione trascendentale della fenomenologia) viene inserita nella
dimensione relazionale: in questo modo le alterazioni della prima
vengono a trovarsi nel campo d’azione della relazione psicoterapeutica.
Nel quarto capitolo, lo stesso autore esplora le varie Gestalten
depressive – psicotiche, reattive, emergenti in diversi stili di personalità –
dal punto di vista della loro fenomenologia e del sostegno specifico a cui
fanno appello. Attraverso l’intreccio dei casi clinici con la teoria
gestaltica, il lettore potrà trovare spunti di comprensione e di
orientamento per muoversi nel campo depressivo.
Nel capitolo quinto, Michela Gecele si confronta con l’altra faccia
della depressione, con quelle esperienze dello spettro maniacale che si
caratterizzano, contemporaneamente, come un adattamento creativo
all’irraggiungibilità dell’altro, e come un’uscita dall’orizzonte stesso della
relazionalità. Il lettore viene accompagnato in un percorso periglioso, in
cui si aprono varchi sul vuoto. Addentrandoci nel labirinto, scopriamo
che, se perdiamo il filo di Arianna della relazione, non solo ci smarriamo,
ma perdiamo il mondo.
Il capitolo sesto, curato da Maria Mione e da Elisabetta Conte,
raccoglie i contributi di diversi autori (le stesse curatrici, Maria Vittoria
Crolle Santi, Lucia Marchiori, Manuela Partinico). Vengono focalizzate
alcune situazioni di vulnerabilità, che espongono al rischio di vissuto
depressivo. Nella riflessione emergono linee di cura e attenzione
necessarie per attraversare questi momenti di criticità. Le situazioni
esplorate sono quelle dell’adolescenza, della vecchiaia, della menopausa,
della malattia terminale, della condizione di solitudine. Nei primi quattro
paragrafi, risalta, in primo piano, il rapporto fra corpo e mondo. Una
vitalità in trasformazione si ripercuote sulla relazione, sulla
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