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Pubblicato nel 1951 da Fritz Perls e Paul Goodman (con Hefferline per la parte pratica) è uno di quei pochi libri del nostro secolo di cui si può ben dire, alle soglie del duemila, che hanno fatto la storia della psicoterapia. Infatti si colloca, e non solo cronologicamente, a un punto di snodo cruciale nello sviluppo della terapia psicologica, quel momento storico in cui cominciano ad attualizzarsi le più vaste e remote potenzialità nel suo fecondo incontro – scontro con tradizioni e culture a volte molto lontane, dal quale nasceranno tutte le forme di terapia psicologica attualmente in uso.
Tra i fili che dalla prima metà del secolo conducono alla terapia gestaltica e alla sua formulazione nel manuale dell’inquieto psicoanalista berlinese ebreo emigrato in Sud Africa e poi negli Stati Uniti, tra questi vasi linfatici c’è la più viva e innovativa tradizione culturale europea del primo terzo di secolo, dalla filosofia fenomenologia ed esistenzialista, alla rivoluzionaria psicologia della gestalt, alla psicoanalisi, ovviamente, con tutti i fermenti più innovativi che ribollivano nell’istituto berlinese degli anni trenta dove Perls si formò con didatti e analisi quali Karen Horney, Melene Deutsch e Wilhem Reich; ma c’è anche il riflesso, colto al volo con stupefacente tempismo, delle nascenti tecniche corporee, che fanno la loro comparsa negli anni trenta nei paesi di lingua tedesca.
Gli influssi che partono da questo manuale, invece, non si contano. Oltre all’impatto diretto e dirompente che ebbe sul mondo in formazione della psicoterapia umanistica, l’orecchio attento ne coglierà un eco, più o meno manifesta, più o meno importante, ma sempre significativa, in tutte le forme di terapia nate da allora nel continente americano, come l’approccio relazionale, e perfino certe tecniche cognitivistiche.
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